Vola l’export di pasta Made in Italy prodotta con grano estero di qualità. L’Italia è infatti il primo produttore europeo di grano duro, ma i 4 milioni di tonnellate prodotti nel 2015, tutti acquistati dall’industria italiana, non coprono il fabbisogno dei nostri pastai (5,8 milioni di tonnellate). Uno studio dell’Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane (Aidepi) rivela come in realtà il mito del nostro più celebre piatto nazionale si sia costruito, fin dalla seconda metà dell’Ottocento, utilizzando oltre al grano nazionale anche grano duro di altissima qualità proveniente dall’estero. Prima dalla Russia e oggi da Canada, Francia, Australia, Stati Uniti.
“Abbiamo voluto fare chiarezza su alcuni argomenti controversi legati a grano duro e pasta, perché la disinformazione non aiuta il consumatore a fare scelte consapevoli”, ha spiegato Riccardo Felicetti, presidente dei pastai di Aidepi, che ha realizzato il dossier con il supporto di esperti di agronomia, nutrizione e pastificazione. “Non bisogna perdere di vista il fatto che la pasta è la base della dieta mediterranea ed è un prodotto sano, gustoso e sicuro, sulla cui qualità garantiscono le aziende che la producono da secoli, trasmettendo il sapere del pastaio di padre in figlio”, ha aggiunto Felicetti.
Se venisse prodotta pasta di solo grano nazionale, gli italiani dovrebbero rinunciare a 3 piatti di pasta su 10 e si perderebbe però il primato di leader mondiale di produzione ed esportazione di pasta, con danni enormi al settore e agli altri comparti trainati dall’export di pasta, come olio, formaggio e pomodoro. Le navi cariche di grano che sbarcano in Italia non sono affatto una novità.
Anzi, il mito della pasta italiana, anche quella di Torre Annunziata e di Gragnano, si è costruito anche grazie ai grani di altissima qualità russi e canadesi. L’attuale deficit strutturale di grano (circa il 30-40% a seconda dall’andamento climatico) è la metà rispetto al 70% registrato a fine Ottocento. Già allora, nei porti di Napoli, Genova e Bari arrivava un grano la cui provenienza era quasi sempre la stessa: per il 90% dal Mar Nero, le cui varietà erano tra le più pregiate e costose disponibili sul mercato. Da allora, l’entità’ delle importazioni è rimasta stabile attorno ai 2-2,5 milioni di tonnellate di grano duro l’anno: in Italia la superficie dedicata a grano duro è rimasta più o meno la stessa, ma le rese sono almeno triplicate (da meno di 1 tonnellata a 3-4 tonn per ettaro) e, allo stesso tempo, è cresciuto di molto il fabbisogno. Tanto che la produzione di pasta (3,46 milioni di tonnellate nel 2015, secondo Aidepi) è aumentata di 6 volte negli ultimi 80 anni. E l’export di pasta è passato in 60 anni dal 5% al 58% del totale produzione (1955-2015).
Il principale fornitore di grano duro è l’Italia, da dove i pastai acquistano il 60-70% del fabbisogno (in pratica, tutto il grano duro nazionale, mantenendo di fatto in vita la filiera), l’origine del restante 30-40% varia in funzione della stagione e della qualità dei raccolti. I grani duri esteri più pregiati possono arrivare a costare anche il 10%-15% in più di quelli nazionali, perché solo i migliori frumenti disponibili sul mercato permettono di realizzare la giusta “miscela”, che è il segreto della nostra pasta. Alla materia prima nazionale vengono perciò aggiunti, in media, circa 1,8 milioni di tonnellate di grani di altissima qualità e grano di grado 3-4 “or better” (cioè tra il fino ed il buono mercantile) provenienti da Usa, Canada, Australia e Francia.
Straniero o italiano che sia, il grano è sottoposto agli stessi, rigidi controlli da molte istituzioni pubbliche e dalle industrie molitorie e pastarie, prima di immetterlo nel ciclo produttivo. Una tesi suggestiva, ma mai dimostrata scientificamente, collega l’aumento di celiachia (e disturbi ad essa correlati) al troppo glutine presente nei grani moderni. In realtà diverse ricerche dimostrano che non è vero che i grani di oggi hanno più glutine di quelli di ieri, evidenziando il ruolo di fattori ambientali e non genetici a determinare l’aumento della percentuale di glutine nel grano e quindi nella pasta.
Peraltro il glutine non andrebbe demonizzato, a meno di essere celiaci, ed anzi contribuisce alla qualità della pasta, trattenendo l’amido e con esso le proprietà nutritive e mantenendo la pasta al dente. In realtà consumare alimenti contenenti glutine non porta alla celiachia se non si è predisposti geneticamente. E anche la predisposizione genetica non attiva automaticamente la malattia.
Oggi il gluten free è un fenomeno di grande portata anche tra i non celiaci e, da prodotti medicali, i cibi senza glutine si sono trasformati in scelta dettata dalle ultime tendenze “salutiste” in fatto di alimentazione. Secondo l’ultimo censimento del ministero della Salute, che ha evidenziato i rischi di autodiagnosi ed eliminazione preventiva del glutine dalla dieta, in Italia sono circa 170 mila i celiaci diagnosticati, eppure ben 2 milioni di famiglie acquistano prodotti senza glutine, per un mercato che muove 101 milioni di euro ed è cresciuto del +31% in un anno.
“È preoccupante che la glutenfobia si sta diffondendo senza fondamento”, spiega Luca Piretta, nutrizionista, specialista in gastroenterologia e docente all’Università Campus Bio-Medico di Roma. “Il glutine è dannoso solo per i celiaci e gli ipersensibili, quindi l’1% della popolazione mondiale. Gli altri possono mangiarlo senza problemi”, ha aggiunto il medico.
Un altro mito da sfatare è che il ‘gluten free’ faccia dimagrire, come pensano tre italiani su dieci. Convinzione smentita dagli esperti, che sottolineano i rischi di una dieta gluten-free in assenza di una patologia o allergia al glutine. Secondo Piretta “non esiste alcun fondamento scientifico sul ruolo di una dieta senza glutine nel calo ponderale. Anzi, nei cereali gluten free l’apporto calorico può essere addirittura superiore, dato che il glutine rappresenta una parte della componente proteica dei cereali che lo contengono. La quota proteica dei cereali contenenti glutine si aggira intorno al 10-12%, mentre è presente tra l’8 e il 10% nei cereali gluten free, che sono peraltro più ricchi di carboidrati (riso) o grassi (miglio e mais). Il rischio di una dieta senza glutine, inoltre, è di compensare l’adeguato e necessario apporto di carboidrati complessi con un’alimentazione eccessivamente ricca di grassi”.
di Eleonora Albertoni
26 Marzo 2016