Nel panorama dell’arte italiana una figura onnipresente è quella di Angelo Merisi, meglio noto come il Caravaggio. Uno dei grandi dell’arte italiana nel mondo. Non c’è giorno, infatti, che di lui e delle sue stupende opere, della sua possanza artistica si parla o si ammirano le opere. Tanto che diversi autorevoli studiosi di storia dell’arte, come la prof. Stefania Macioce, docente a La Sapienza, non solo hanno dedicato ampi e approfonditi studi a Caravaggio ma sono diventati punto di riferimento per le principale gallerie d’arte del mondo.
Ora giunge, molto significativa, la mostra appena aperta alla Galleria Borghese di Roma, dove è esposto anche un capolavoro assoluto come la ‘Canestra di frutta’, raro da vedere in mostra e prestito eccezionale della Pinacoteca Ambrosiana, nell’importante esposizione che, fino al 19 febbraio, racconta la rivoluzione di Caravaggio e la nascita della natura morta, genere diventato tra i più amati in pittura, e germinazione dell’arte moderna.
Nelle sontuose sale del museo, circondate da opere scultoree e pittoriche di eccezionale valore e fama mondiale, sono allestite circa 40 opere in tema delle natura morta, tra cui il ‘Bacchino malato’ e il ‘Ragazzo con canestra di frutta’, alcuni dei più famosi dipinti del Merisi conservati alla Borghese, nonché le tele del Maestro di Hartford, attribuite negli anni ’70 da Federico Zeri a un giovane Caravaggio, e la celeberrima ‘Fiasca spagliata con fiori’ del Maestro della fiasca di Forlì, di suprema fattura, però ancora senza attribuzione certa, affiancata da un’inedita seconda versione.Con il titolo “L’origine della Natura morta in Italia. Caravaggio e il Maestro di Hartford”, la mostra – interamente realizzata dal museo romano di Villa Borghese con le sue esigue ma valide risorse umane – costituisce la prima occasione per ammirare una serie di opernon solo bellissime, ma fondamentali per la comprensione filologicamente corretta del processo concettuale che ha portato Michelangelo Merisi, il Caravaggio, appena giunto a Roma (siamo sul finire del XVI secolo), a compiere fino in fondo una profonda trasformazione dell’arte del tempo partendo dal naturalismo lombardo. È proprio da lì che prende il via il percorso espositivo: dalla ‘Fruttivendola’ di Vincenzo Campi, dove ancora la figura umana è preponderante, da ‘L’ortolano’ di Giuseppe Arcimboldo, che è in realtà un tegame con le verdure rovesciato, e la prima natura morta realizzata in Italia, vale a dire ‘Piatto metallico con pesche e foglie di vite’, dipinto in modo sublime tra il 1590 e il 1594 da Giovanni Antonio Figino, tanto da ispirare alcuni madrigali nel segno delle Vanitas.
Ed ancora ammirabile il ‘Bacchino malato’, in cui Merisi si presta un eccezionale autoritratto, e il ‘Ragazzo con canestra di frutta’, due dei Caravaggio della Borghese in cui i brani di natura morta inseriti dal pittore nella scena fecero scalpore nella città eterna alla fine del ‘500. Si dice infatti che, una volta giunto a Roma, Caravaggio trovasse posto nella bottega del Cavalier d’Arpino che l’avrebbe destinato a fare fiori e frutta. Per questo, quando Federico Zeri tornò a studiare la raccolta di Scipione Borghese e a fianco dei due ritratti di giovane del Caravaggio, trovò le quattro grandi Nature morte del cosiddetto Maestro di Hartford, ipotizzò (non senza tumultuose polemiche) che anche queste ultime potessero essere tra le prime opere romane del genio lombardo.
Grazie alla curatela del giovane Davide Dotti e della direttrice del museo Anna Coliva, per la prima volta è così possibile vedere le opere perfettamente affiancate, in un allestimento che rende lampante l’estrema diversità delle due mani: “più secca e legnosa” quella dell’artista ancora sconosciuto, piena della poesia del naturalismo quella di Caravaggio. Ad ogni modo, ha spiegato Dotti, il Maestro di Hartford è il primo a dedicarsi interamente a questo genere, mentre il Merisi lo usa per fare la sua personalissima rivoluzione della pittura. Come è ben evidente nella ‘Canestra di frutta’, che troneggia a metà percorso.
“Ha una monumentalità straordinaria, come se fosse una Madonna, ha l’identica dignità di una figura”, ha sottolineato Anna Coliva, spiegando che qui la natura morta “non è un incidente, un topos, né un banco di prova del talento del pittore, bensì diventa volontà d’arte”.
Non a caso, lo stesso Caravaggio dice che per lui dipingere una figura o un frutto è la stessa cosa, perché “il valore di ciò che fa è trasferito dal soggetto in questione alla pittura stessa”. L’arte, dunque, secondo Coliva, già per Michelangelo Merisi, “non riproduce semplicemente la realtà, ma è una sorta di mondo parallelo”, proprio come nelle concezioni delle prime Avanguardie storiche all’inizio del ‘900.
La mostra prosegue indugiando sui numerosi maestri che nel ‘600, in seguito alla lezione di Caravaggio, hanno dedicato parte della loro produzione al cosiddetto ‘Still Life’. Opere di grande importanza tra cui spicca la ‘Fiasca spagliata con fiori’, del Maestro della fiasca di Forlì, attribuita anche al Cagnacci per la sua bellezza. Per l’occasione la tavola è stata sottoposta a indagini diagnostiche e si è visto che sotto lo strato di pittura c’era un ritratto preesistente. Forse il proprietario si era stancato di quel soggetto e ne ha voluto uno nuovo. Infine, il capolavoro dei Musei civici di Forlì è stato allestito accanto a una sua seconda versione, esposta qui per la prima volta, che conferma l’estrema maestria dell’autore. “Probabilmente si tratta di un importante pittore di figura che ha fatto solo qualche incursione nella Natura morta”, ha concluso Coliva.
Insomma vale la pena ammirare la rivoluzione che Caravaggio ha apportato nell’assegnare pari dignità e autonomia sia alla pittura di fiori e frutti che a quella di figura: “Non c’è dubbio che la ‘natura morta’ del ‘500, prima del Caravaggio, appartenga alle tipiche specificazioni intellettualistiche di quel secolo e abbia posto prevalentemente tra le ‘rariora et curiosa’ dei gabinetti di meraviglie, tali erano le strane composizioni a indovinello figurale dell’Arcimboldi e le inutili microscopie dei fiamminghi, estrema degenerazione dell’acutezza lenticolare del grande, ma pericoloso, ‘400 nordico, che ora finiva di scade a lavoro di pazienza da monache e da certosini”.
di Dario de Marchi
23 Novembre 2016