Il labile confine tra poesia e immagini ha il suo vate. E la prova è ora visibile nella Capitale. Il grande fotografo marchigiano Mario Giacomelli è infatti il poeta della camera oscura, quella con cui lavorava sul “territorio della carta; dove si realizza il gioco di forze tra diverse tonalità: dove si rintraccia il senso del mondo, nel rapporto tra astratto e reale”. Dove “la figura nera aspetta il bianco“, come ha spiegato la curatrice Alessandra Mauro osservando “L’approdo”, la prima foto di Giacomelli, scattata nel 1953 sulla spiaggia di Senigallia e che ora apre la successione di oltre 200 scatti esposti fino al 29 maggio a Palazzo Braschi a Roma.
La grande mostra antologica, di cui Mauro è appunto curatrice, propone per la prima volta nella Capitale un viaggio appassionante nella fotografia di Giacomelli, nel suo “furore creativo”. La mostra, promossa da Roma Capitale-Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, è prodotta dalla Fondazione Forma per la Fotografia, in collaborazione con Archivio Giacomelli di Senigallia, e organizzata con Zetema Progetto Cultura.
Le fotografie sono tutte in formato originale: stampe vintage e autografate dall’autore, esposte in una successione realizzata in stretta collaborazione con la famiglia e accompagnata dall’analisi storico-critica di vari importanti autori, raccolta nel catalogo edito da “Contrasto”. Giacomelli stesso, ha spiegato Mauro, “era attento all’esposizione delle sue foto, al modo in cui pensava sarebbero state messe in mostra”.
Il percorso a Palazzo Braschi comincia dalle fotografie scattate sulla spiaggia di Senigallia nel 1953 e prosegue con le serie dedicate all’Ospizio (“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”), ai “pretini” in festa nel seminario della città (“Io non ho mani che mi carezzino il volto”), a Lourdes, alle atmosfere fuori dal tempo di Scanno, ai contadini de La buona terra.
Scanno, l’ospizio, il seminario: Giacomelli “nutriva una predilezione per i microcosmi”, in cui si rifletteva “una gioia effimera, velata di malinconia”, ha sottolineato Mauro ricordando ciò che Pietro Donzelli diceva al suo allievo marchigiano: “Sarà dura la sua strada, come è dura la mia perché la malinconia non è sempre accettata dagli uomini, che cercano di sfuggirla. Si ricordi però che il cammino degli artisti è fatto solo di tristezza e di dolore. Nascono per consolare la tristezza degli altri”.
A Palazzo Braschi, inoltre, scorrono le serie dedicate alle grandi poesie che affascinavano con il loro ritmo e la loro profondità Giacomelli: “A Silvia” di Leopardi, “Io sono nessuno” di Emily Dickinson e “Ritorno” di Giorgio Caproni.
Non mancano nella mostra capitolina anche le straordinarie immagini del paesaggio marchigiano, che per tutta la vita Giacomelli non si è mai stancato di fotografare, di riprendere e di sorprendere, ed alcune tra le sue immagini più “materiche”, dove la tensione tra le figure nere e il bianco di fondo si fa attesa drammatica, corposa, lirica.
Sono visibili anche altre serie (“Ritorno”, “Territorio del Linguaggio”, “Il volo lento delle farfalle”), che testimoniano quel lavoro incessante di grande inventore di immagini che ha sempre contraddistinto il lavoro di Mario Giacomelli.
di Valentino Vilone
06 Maggio 2016