Gli esperti di digitalizzazione del patrimonio culturale si confrontano in una conferenza internazionale a Roma sulle applicazioni per l’istruzione, il turismo e il tempo libero: teche parlanti, stampa 3D e atelier multimediali stanno trasformando i musei.
La lattaia di Vermeer stampata sul tetrapak del latte, un Buddha di pietra con la genesi in bassorilievo in 3D, ma anche una balena intera ricostruita in Pvc dai fossili trovati in Cile. Sono le nuove frontiere della digitalizzazione dei beni culturali, che vedono in campo le principali istituzioni di settore dei paesi europei e degli Stati Uniti. Tecnologie che portano sui nostri computer i risultati delle nuove tecnologie applicate ai beni culturali, grazie alla digitalizzazione di opere d’arte finora chiuse in musei nelle parti più remote del mondo.
A fare il punto sui progetti più importanti di digitalizzazione dei beni culturali sono i responsabili delle principali istituzioni pubbliche italiane e internazionali, riuniti a Roma, presso la Biblioteca Nazionale Centrale per la conferenza “Il riuso dei contenuti culturali digitali per l’istruzione, il turismo e il tempo libero”, evento inserito nel programma ufficiale del semestre italiano di presidenza dell’Ue.
Wim Pijbes, del Rijkmuseum di Amsterdam, racconta di «circa 150 mila persone nell’agorà digitale del museo», che possono ammirare sul monitor collegato a internet le raccolte digitali. «Offriamo – spiega – una digitalizzazione delle collezioni di altissimo livello qualitativo, con possibilità di zoom sulle immagini fino a ieri impensabili. Utilissime a studiosi, ma anche di interesse pubblico». Chi si collega «può anche farsi la propria personale mostra, magari con i dettagli dei baffi presenti in tutti i quadri presenti nelle nostre sale». Inoltre, selezionando i dettagli delle opere è possibile poi stamparle in 3D, «come per esempio per il tetrapak del latte con i dipinti di Van Gogh o per i merletti “copiati” dai dipinti che diventano reali».
Allo Smithsonian Museum di Washington, come racconta Gunter Waibel, «è stato ricostruito in 3D un prezioso Buddha in pietra, con bassorilievi posteriori che raccontano la storia e le vicende dello stesso fondatore del Buddismo. Gli studiosi avevano fatto solo rappresentazioni in carbone, ora grazie alla scansione in 3D, la statua ha rivelato i suoi segreti. Con il 3D si legge la storia dell’oggetto».
Tecnologie digitali che rivelano le parti mancanti del racconto in bassorilievo, oppure permettono di misurare con certezza le dimensioni di quanto disegnato sulla pietra. Sempre a Washington si è lavorato sui resti fossili di una balena trovati in Cile. Esperti Usa sono andati a documentare la scoperta, e ora abbiamo un modello 3D che permette di vedere la balena “dal vivo”, originando studi e ricerche fino a ieri impensabili. «Sono le più grandi ricostruzioni 3D presenti in un museo», aggiunge Waibel. «Così si preservano i dati, si permette lo studio dei dettagli. Nel 2013 – conclude il responsabile dello Smithsonian – già tredici oggetti di questo tipo sono finiti in rete, con accesso libero per tutti, all’interno del progetto “Smithsonian X 3D”, con fondi pubblici».
L’Italia non sta a guardare: anche nel nostro paese sono molti i musei, da quelli archeologici a quelli scientifici, che si sono affidati ai contenuti digitali a scopo di didattica, divulgazione e valorizzazione. Grazie alle nuove tecnologie, ad esempio, «gli Etruschi si animano», come spiega Rita Cosentino, responsabile della Necropoli della Banditaccia, presso Cerveteri (Roma). Nelle otto tombe del sito sono state collocate postazioni multimediali (nel rispetto del luogo, riuscendo a «rendere invisibili i computer») grazie alle quali «ogni tomba racconta una storia». A parlare sono anche le teche multimediali del Museo Nazionale Cerite: il merito in questo caso è della tecnologia touch on glass che trasforma la vetrina in uno schermo tattile; basta toccare per conoscere la storia del reperto custodito all’interno. L’obiettivo è rendere l’esperienza della visita più fruibile e perfino divertente per un pubblico non esperto, e attirare nuovi visitatori, in particolare giovani. Non solo, la digitalizzazione permette anche di ovviare a problemi di conservazione: per rimanere in ambito etrusco, il Sarcofago degli Sposi virtuale potrà viaggiare in tutto il mondo senza problemi.
Un caso diverso è quello del Muse – Museo delle Scienze di Trento, che ha dato vita al FabLab, «laboratorio di fabbricazione digitale», come lo definisce il direttore del Muse, Michele Lanzinger. Si tratta di una struttura votata all’invenzione e all’innovazione, in cui si progetta, si impara e si insegna a progettare. La filosofia di fondo è che il museo è parte di una comunità – di studenti, educatori, ricercatori, tecnologi, imprenditori – e può diventare «un fattore di sviluppo locale», come facilitatore, incubatore, fornitore di servizi. Nell’atelier digitale trentino si sta sperimentando, tra l’altro, la stampa 3D, attirando anche l’interesse delle aziende, ad esempio nella produzione di gioielli.
3 ottobre 2014
da Comunicato Stampa